domenica 26 luglio 2015

Lucian FREUD | Two Japanese by a Sink, 1983-87


Lucian Freud - Two Japanese by a Sink, 1983-87 - Olio su tela

Lucian Freud – Two Japanese Wrestlers by a Sink, 1983-87


Lo straordinario quadro di Lucian Freud intitolato “Due lottatori giapponesi e lavello” rappresenta il lavello dello studio del pittore.  Il titolo è piuttosto enigmatico, se non ironico: allude infatti anche a “due lottatori giapponesi” che non si vedono e non si sa cosa abbiano a che fare con il lavello del pittore. 
Come tutte le nature morte, il quadro  evoca presenze scomparse ( non a caso questo genere pittorico – sviluppatosi inizialmente in epoca ellenistica con mosaici di pavimento rappresentati resti di cibo , e affermatosi poi nel ‘600 e nel ‘700 nella raffigurazione di figure inanimate come frutta, o selvaggina morta – è ricollegabile al culto dei morti: il cibo caduto da tavola era destinato ai famigliari defunti). .
Le macchie che restano sul bianco delle mattonelle, fanno pensare al pittore e alle persone che hanno utilizzato il lavello nel corso del tempo. Mi colpisce anche l’acqua che scorre dai due rubinetti: lo sguardo va verso il bocchettone di scarico… e sembra quasi di sentire l’eco del risucchio.

Quello che forse non si può dire perché è infinitamente perduto, lontanissimo, e nello stesso tempo, è troppo vicino al cuore, un pittore talvolta può mostrarlo.  Con Two Japanese Wrestlers by a Sink, il pittore mostra, maliconicamente e con ironia, che tutti, non solo i pittori decisivi, alla fine lasciamo una macchia e l’acqua che scorre…

Gianni De Martino

Andrea MANTEGNA | Giuditta e Oloferne


Andrea Mantegna | Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne, 1495, tempera oro e argento su tavola. National Gallery of Art, Washington


Questa è la storia di una donna virtuosa, ormai vedova, Giuditta, che per salvare la sua città Betulia e il suo popolo si macchia d’omicidio. L’ucciso è Oloferne, comandante delle truppe assire di Nabucodonosor. La storia in realtà racconta del popolo ebraico che grazie alla sua astuzia riesce a sconfiggere i babilonesi che tentavano di conquistarli. Cioè è sempre la storia del Bene contro il Male.

Di Oloferne oltre la testa vista di nuca vediamo un piede sul ricco letto dorato. Tutto qui. La serva anziana, abbigliata con pantaloni e veste con un vago accenno orientale, è una figura di complemento.

Giuditta è la protagonista. La donna elegantemente abbigliata con una veste bianca e un mantello di colore blu, mentre porge la testa alla serva, volge lo sguardo malinconico altrove. Non c’è patos in realtà, non c’è orrore o ribrezzo nel suo sguardo. La testa non ha peso, il sangue non colora. L’azione è come bloccata in quel preciso istante. Sembra quasi una sacra rappresentazione. La tenda rosa alle spalle delle due donne amplifica il senso scenico fungendo da sipario.



Andrea MANTEGNA | Giuditta con la testa di Oloferne, tempara su tela, 1495. National Gallery of Dublino


Se confrontiamo questo dipinto con quello di Washington vediamo che la scena è molto simile sebbene ribaltata. Giuditta e la serva sono fuori della tenda di Oloferne, del quale vediamo un piede sul giaciglio.



Andrea MANTEGNA | Giuditta con la testa di Oloferne, tempera su tela di lino, 1495 - 1500. Museum of Fine Arts, Montreal

Anche qui Giuditta e la serva sono isolate e manca l’ambientazione scenica.



Andrea MANTEGNA | Giuditta con la testa di Oloferne, disegno, Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi (penna, acquarellature marroni, biacca su carta bianca molto scurita, 39 x 25,8 cm.)

Qui le due donne sono isolate, manca l’ambientazione scenica.


sabato 25 luglio 2015

JUSEPE de RIBERA | Apollo e Marsia (1637)


JUSEPE de RIBERA | Apollo e Marsia, 1637. Olio su tela, 182 x 232 cm. Museo di Capodimonte, Napoli

Fa davvero tremare l'urlo feroce di dolore di Marsia che viene scorticato vivo dal dio Apollo. Ribera rappresentò spesso, nei suoi dipinti religiosi scene di scuoiamenti e di torture subite dai martiri cristiani (come San Bartolomeo), tanto che si è detto di lui che  «nutriva la sua tavolozza col sangue dei santi». Questa predilezione per scene truculente e tragiche si riflette anche nei suoi dipinti mitologici (oltre al supplizio di Marsia, Ribera raffigurò per esempio, quelli di Tizio e di Prometeo, ai quali, secondo il mito, vengono divorate le interiora).  Dietro il realismo violento e immediato di queste scene c'è senza dubbio l'insegnamento di Caravaggio che, però, viene spinto dal pittore spagnolo fino al compiacimento macabro e alla ostentazione trionfante di chiara matrice iberica. Anche la tecnica pittorica cambia rispetto alla lezione caravaggesca. Il nudo di Marsia, ad esempio, non emerge grazie al contrasto di luci e ombre, ma attraverso una materia grassa e una pennellata pastosa che rende i valori "tattici" dell'epidermide, la sostanza rugosa del suo viso raggrinzito dalla smorfia terribile. L'aspro realismo della scena si apre in questo modo a un pittoricismo raffinato e brillante che ha il suo brano più alto nella mantellina svolazzante di Apollo, schiarita da preziosi effetti luce che investono le figure ed il cielo azzurro, striato di nubi rosate, sullo sfondo.







È un momento determinante nella storia di Ribera e della pittura napoletana del Seicento che dalla metà degli anni Trenta si apre alle correnti proto-barocche e alla ventata neoveneta di Van Dyck


Curiosità: 
L'Apollo e Marsia di Ribera venne copiato, circa venti anni dopo, da Luca Giordano in un dipinto accanto al quale è oggi esposto nel Museo di Capodimonte. Giordano riprese in controparte la composizione di Ribera, fin nei minimi dettagli: il volto urlante di Marsia, la disperazione del Satiro e soprattutto il pittoricismo raffinato, anche se tenuto su tonalità più scure.

EL GRECO | Ragazzo che soffia su un carbone (1570-1575 ca)


EL GRECO (Domenico Theotokopoulos) | Ragazzo che soffia su un carbone (1570-1575 ca), Museo di Capodimonte, Napoli

Non sono molti i pittori cinquecenteschi che, al di là dei soggetti sacri, hanno dipinto l'infanzia. Lo fa El Greco in questa famosa tela, rivelando di avere con quel mondo una profonda affinità, un sentire comune: l'atteggiamento di sorpresa rispetto alla varietà e alla bellezza dell'universo. Uno sguardo di infantile purezza che consentì a El Greco di azzerare ogni convenzione e costruire un'arte nuova ed emozionale, libera da ogni vincolo formale. È una caratteristica che il pittore cretese conserverà tutta la vita e in ogni sua opera: quando si fa più spettrale e spaventevole o quando invece è sognante e leggero, come in questa tela. El Greco gioca con la luce, risolvendo il quadro tutto nel bagliore del tizzone e nell'aria assorta del ragazzo, che è protagonista di uno dei primi quadri "di genere" della storia dell'arte. Ma al di là della scelta del soggetto, impressiona il tentativo, quasi fotografico, di cogliere un momento, fermare un attimo di esistenza, accende l'arte di El Greco. E un altro soffio, potentissimo, accende l'arte di El Greco. 





La luce, vera protagonista del quadro. El Greco si concentra nella rappresentazione naturalistica di una fonte luminosa artificiale, come farà molto più tardi anche Caravaggio. Soffiando sul tizzone, il ragazzo ravviva la luce ed esalta ancor più il contrasto con lo sfondo totalmente in ombra. Anche questo gioco tra buio e bagliore sarà prezioso nella pittura di Caravaggio e dei suoi emuli, per tutto il Seicento.
 



ANTONELLO da MESSINA | Annunciata di Palermo (1476 circa).


Antonello da Messina | Annunciata di Palermo (1476 circa).
Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo.

Volto ovale proporzionato, profondi occhi neri e zigomi pronunciati, questo è il ritratto di una bellezza mediterranea, al contempo molto umana e astrattamente perfetta.

La Vergine è colta nel momento in cui l'angelo se n'è appena andato (oppure nel momento dell'interrogazione). Dalla sagoma, quasi piramidale, del manto emerge il perfetto ovale del volto. 

«Si noti la piega della mantellina che scende al centro della fronte: che per il pittore, al momento, avrà avuto soltanto un valore compositivo, ma a noi dice di un capo conservato nella cassapanca fra gli altri del corredo e tirato fuori nei giorni solenni, nelle feste grandi». Così Leonardo Sciascia descriveva l'Annunciata.





Il critico Roberto Longhi, invece, parla della «più bella mano che [...] conosca nell'arte»

Il cuore del quadro è nella mano alzata,
 in un gesto impercettibile, ma decisivo e pieno di apprensione. Lo sguardo magnetico e la mano sospesa in una dimensione astratta ne fanno un capolavoro assoluto della pittura rinascimentale italiana.

Lo sfondo scuro e la rappresentazione essenziale derivano dai modelli fiamminghi.